La via del canto

 
 

É molto difficile cercare di rendere il significato di un’idea, soprattutto per me che filosofo non sono.

Ho trovato una straordinaria affinità con quanto Bruce Chatwin scriveva, sin dall’uscita de “Le Vie dei Canti”, così da farne una sorta di manifesto, sia per cercare di spiegarmi quest’ansia innata che mi porta ad un fisico bisogno di spostamento, sia per condividere l’esperienza della passione per gli oggetti.

Le Vie dei Canti (o Piste del Sogno o Orme degli Antenati o Via della Legge) sono un “dedalo di sentieri invisibili che coprono tutta l’Australia. I miti Aborigeni sulla creazione narrano di leggendarie creature totemiche che nel tempo del sogno avevano percorso in lungo e in largo il continente cantando il nome di ogni cosa in cui si imbattevano: uccelli, animali, piante, rocce, pozzi, e col loro canto avevano fatto esistere il mondo”.

Così leggevo nel 1988 in una edizione regalatami da alcune amiche. Da allora quell’edizione è stata arricchita dalla dedica del proprietario dell’haveli indiana nella quale la maggior parte del libro è stata scritta e dai timbri degli Ostelli che hanno ospitato Bruce Chatwin in Australia.

Così, gli oggetti sono diventati per me il ricordo dell’esistenza del viaggio e del luogo e questi non necessariamente devono avere una storia “artistica”, spesso acquistano storia perché testimonianza di un mio momento di vissuto.

Le mie Vie dei Canti sono questi oggetti che illustrano i miei viaggi e che cerco sempre di indossare perché costituiscono ormai una parte di me.

Amo mescolare elementi di diversa provenienza, guidata dal solo senso estetico, creando una sorta di melting pot culturale, abbinandoli spesso ad elementi naturali come coralli e conchiglie e riunendo idealmente posti lontanissimi in un’ipotetica e personalissima Via del Canto, che racchiude l’avventura e l’estetica.

Ogni elemento è portatore di una storia, sua propria o legata alla persona che lo ha indossato, che lo ha creato o me lo ha venduto.

L’oggetto in realtà è il pretesto, molto più importante è il cercare, trovare e scoprire qualcosa di nuovo, lo scoprire le storie personali dei miei “fornitori”: Regina che ad Hong Kong mi vende le giade su una bancarella di un metro quadrato e che continua il lavoro che iniziò suo nonno; i fratelli Muttageen che al mercato di Jatujak, a Bangkok, vendono i loro gioielli fatti di corallo nero, turchese e perle creati da loro nei momenti di libertà dalla loro attività principale: la coltivazione di orchidee; Luxor Tavella a New York che da 30 anni gestisce il suo negozio come se fosse un souk.

Ancora di Chatwin ammiro e condivido la straordinaria curiosità che lo portava a cogliere “istantanee” in qualsiasi momento: ascoltando la conversazione al tavolo accanto in un ristorante o interrogando un tassista qualunque. In questa sua attenzione per le storie, l’irresistibile attrazione per le contraddizioni e per qualsiasi scarto dalla strada segnata, per le anomalie e per gli estremi, per i luoghi remoti e per le parole rare, riconosco tanti miei comportamenti.


Da un lato i pezzi originali, antichi o moderni, e dall’altro i gioielli, che nascono dall’assemblaggio di pezzi anche di provenienza diversissima. Questi accostamenti non sono cercati, i pezzi dopo essere stati acquistati possono rimanere inutilizzati per anni, fino a che arriva un elemento che, accostato, dà vita ad un insieme e fa rivivere di nuova vita anche il vecchio oggetto.


Non ho la pretesa di riuscire ad eguagliare il taglio, la grazia e il senso della composizione del grande QALANDAR(*) che è stato Chatwin, ma è sicuramente mia ferma intenzione rendergli omaggio.

Voglio anche fare mio il consiglio che una volta Noel Coward diede a Bruce Chatwin: “non lasciarsi influenzare da preoccupazioni artistiche”.

Quanto presentato è semplicemente il frutto di una passione, un passatempo, la voglia di ricordare ed in qualche modo fare mie le etnie che ho visitato ed i personaggi che ho incontrato.


E, come riportato da Chatwin, cito la frase di Anatole France:

“Far collezione d’oggetti è buona cosa, ma far passeggiate è meglio”.



Enrica Carretti

 

Collezione carretti: oggetti come testimonianza di viaggio